Intervista
Tele Agrigento
CORSI E RICORSI STORICI SUL PROCESSO CIVILE DALL’800 AD OGGI

(anche alla luce delle ultime riforme)
Intervento dell’Avv. Eugenio Amaradio
Presidente della Camera Civile di Enna e
gia componente dell'Assemblea Nazionale de
L'O.U.A. Organismo Unitario dell'Avvocatura e
Segretario dell'Unione Siciliana Camere Civili.

Premessa

Dopo una evoluzione storica millenaria, il nostro legislatore ispirò il primo codice di rito post-unitario del 1865 su dei principi liberisti in base ai quali le parti contendenti avevano la piena disponibilità dell’azione, mentre il giudice interveniva, in linea di massima, solo con la decisione.
Con i primi anni del ‘900, iniziando a diffondersi i principi di uno stato autoritario, si cominciò a concentrare nelle mani del giudice un sempre maggiore potere diciamo “dirigista” ed a sottrarre, poco alla volta, alle parti ed ai loro difensori il potere “dispositivo” per cui si pervenne, infine, nel 1940 ad un nuovo codice di rito ispirato a tali concetti.
Sembrerebbe ovvio che, finita la seconda guerra mondiale e ritornata la democrazia, il nostro legislatore dovesse abrogare questo nuovo codice di ispirazione fascista e potesse ripristinare rapidamente un processo liberale, ma così non fu. Si continuò, invece, nella strada intrapresa e, con varie riforme succedutesi negli anni, si continuò ad accentrare sempre più poteri nelle mani del giudice, limitando di conseguenza quelli delle parti, nell’illusorio convincimento di agevolare così il corso della giustizia.
Il risultato è stato grave e pernicioso in quanto i giudici, cronicamente insufficienti di numero, furono oberati da una mole enorme di lavoro in dipendenza delle molteplici attività cui furono chiamati per cui non ressero all’impatto e la giustizia civile entrò in una grave crisi esistenziale non ancora risolta, tanto che la stessa è divenuta oggi “la cenerentola” dell’amministrazione giudiziaria.
E dire che in passato ci sono stati inculcati alcuni concetti fondamentali tra cui, quello basilare, che la giustizia civile, con il suo bagaglio bimillenario di codici, studi, approfondimenti, dottrina e giurisprudenza, costituisse la base fondamentale della nostra civiltà occidentale e del nostro vivere quotidiano.
Ancora oggi, quindi, siamo costretti a riproporci, come facciamo oramai da anni invano, lo scopo di rivalutare la funzione preminente di tale giurisdizione, per affermare, a voce alta, che è assolutamente necessario che la stessa funzioni e sia efficiente perché essa ci può e ci deve garantire un ordinato vivere civile e deve evitare che i cittadini, non potendo risolvere equamente ed al meglio i loro problemi, possano venire alle armi (secondo l’antico broccardo “ne cives ad arma veniant).

Sull'evoluzione del codice di rito dal 1865 ad oggi

E’ opportuno, in proposito ed a tal fine, ricordare sinteticamente l’evoluzione del nostro codice di rito a far tempo dal R. D. Leg. Del. 25 Giugno 1865 n. 2366, seguito dopo innumerevoli modifiche dal R. D. Leg. Del. del 28 Ottobre 1940 n. 1443 che approvava il codice vigente, dalla relativa “novella” di cui alla Legge 14 Luglio 1950 n. 581 e dalle ultime modifiche ed integrazioni.
Il processo, regolato dal codice del 1865, era composto da due distinti procedimenti: il formale ed il sommario.
Nel primo le istanze e le risposte erano fatte per iscritto, mediante comparse deliberative con notificazione al procuratore avversario, con termini non perentori; esaurita la trattazione scritta, la causa veniva iscritta sul ruolo generale di spedizione per essere istruita e decisa. Le caratteristiche del secondo erano l'oralità e la citazione ad udienza fissa.
Come ci dice Enrico Tullio Liebman (v. Manuale di Diritto Processuale Civile, Giuffrè Ed. 1957, 22), i componenti del collegio giudicante non avevano alcuna conoscenza diretta dell’andamento del processo e della sua istruzione e, al momento della decisione, dovevano maturare il loro giudizio sulla lettura dei verbali e delle difese scritte (come d’altro canto avviene ancora oggi dato che, per le lungaggini del processo attuale, il decidente non è quasi mai lo stesso dell’istruttore).
Ogni questione controversa, anche se riguardante il procedimento e l’ammissione delle prove, doveva essere decisa dal Collegio con sentenza interlocutoria soggetta ad appello.
Questi ed altri presunti difetti furono denunciati, sin dall'inizio del secolo scorso, da Giuseppe Chiovenda che, con instancabile opera documentata nelle sue "Istituzioni" Vol. II, 1, 362 e segg., immaginando un processo civile perfetto ed idealizzato secondo le concezioni “statalistiche” del tempo, sostenne che era necessaria una riforma che doveva essere radicale e riguardare la struttura del procedimento, informata al principio dell’oralità ed agli altri principi connessi dell’immediatezza, della concentrazione, dell'immutabilità del giudice e della non appellabilità delle decisioni interlocutorie, in modo che il giudice potesse intervenire più attivamente nella direzione del procedimento e nella formazione del materiale di cognizione.
Queste idee, di per sé fascinose, portate avanti dal Chiovenda in un progetto di riforma della "Commissione per il dopo-guerra" sin dal 1920, furono poi poste a base del nuovo codice del 1940, propugnato dal nuovo Guardasigilli Dino Grandi e predisposto da Piero Calamandrei, Francesco Carnelutti ed Enrico Redenti, i tre più importanti processualisti del tempo, il primo dei quali dettò anche la Relazione al Re.
Il nuovo Codice fu direttamente influenzato dallo stesso Mussolini che, in calce ad una nota di un magistrato rimasto ignoto che sollecitava la riforma in senso autoritario, appose di suo pugno le parole: “Ha ragione. Il giudice non dirige ma è diretto”. (si veda Franco Cipriani in Storie di processualisti e di oligarchi, La Procedura Civile nel Regno d'Italia, Giuffrè Ed. Milano, 1991, 364 e segg.).
Così quasi tutti i poteri di gestione del processo vennero sottratti alle parti ed affidati all'"autorità del giudice" secondo lo "spirito del Regime" allora imperante.
Purtroppo, i risultati che si ottennero non furono soddisfacenti per cui fu subito evidente che il nuovo codice era inadeguato in quanto, invece di snellire il processo, lo aveva reso più lungo e farraginoso per l’obbiettiva impossibilità di giudici ed avvocati di gestirlo adeguatamente.
Invero gli avvocati, immediatamente dopo il 25 Luglio del 1943, alla caduta del regime fascista, si accorsero del problema e chiesero l’abrogazione del nuovo codice propugnando il ritorno al codice del 1865.
La “querelle” si trascinò per diversi anni, tutti gli Ordini degli Avvocati insistevano per l’abrogazione, solo il Consiglio Nazionale Forense, alla cui Presidenza intanto era stato eletto proprio quel Piero Calamandrei che aveva dato le ultime rifiniture al Codice ed aveva scritto la Relazione al Re, non si pronunciò mai ed alla fine il Codice non venne abrogato. (si veda Franco Cipriani in Avvocatura e diritto alla difesa, Saggi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999, pp. 240 e segg.)
Si considerò solo che il Codice aveva bisogno di ulteriori “rifiniture” che sopravvennero con la “novella” del 1950 in cui, tra l’altro, si attenuò il principio dell’oralità con la legalizzazione delle memorie scritte.
La crisi della giustizia civile, allora latente, si andò aggravando sempre di più sia per i formalismi previsti dal nuovo codice sia per il vorticoso progredire della nostra società e sia per le congenite insufficienze degli uffici giudiziari.
Tale crisi ha provocato e continua a provocare proteste generali e confuse che non hanno fatto individuare le vere cause ed allora, illogicamente, si è data la colpa al codice, ritenuto paradossalmente lassista e che, quindi, è stato ulteriormente e continuamente riformato e maltrattato, ed agli avvocati o ai magistrati che, ingiustamente, sono stati ritenuti anche loro responsabili del disastro.
In considerazione di questi convincimenti, ancora oggi imperanti e diffusi nell’opinione pubblica attraverso i mass media, nel recente passato il nostro legislatore, come accennato nelle premesse, invece di affrontare alla radice il problema, tornando ad un processo più liberale affidato, per quanto possibile, all’iniziativa delle parti ed incrementando il numero dei magistrati, ha ritenuto, nel tempo, di approvare innumerevoli, ulteriori, affrettate ed, a volte, contraddittorie riforme che, come sopra detto, sono risultate inefficaci se non dannose.
Si cominciò con la Legge 11 Agosto 1973 n. 533 sul rito del processo del lavoro, esteso alle controversie agrarie ed a quelle sulle locazioni, si continuò con la Legge 26 Novembre 1990 n. 353, cd novella del 1990, che, con le ulteriori modifiche apportate dalle leggi successive, tra cui la L. 21.11.1991 n. 374 sul Giudice di Pace, la L. 20.12.1995 n. 534, il D. Lgs. 19 Febbraio 1998 n. 51, sul giudice unico di primo grado ed, infine, la L. 14.5.2005 n. 80, ha comportato il terzo e decisivo trapianto nel corpo del Codice del 1940.
Con tali norme, tutte ancora ispirate ai principi che il Chiovenda dettò ed il Carnelutti attuò in altro contesto storico, il nostro legislatore ha proseguito testardamente nel suo programma ed ha previsto una sempre più pregnante iniziativa del giudice divenuto, intanto, il più delle volte monocratico.
Queste scelte non hanno portato a risolvere la crisi della giustizia civile e non sono riuscite, nonostante tutto, a smaltire il notevole arretrato, ma nemmeno a rendere una giustizia più giusta, sgombera da inutili formalismi, dato che una buona percentuale di liti civili viene oggi decisa in base a questioni di forma e non di merito.
All'inizio degli anni 2000, anche a seguito di varie e pressanti iniziative delle rappresentanze più illuminate dell'Università, della Magistratura e dell’Avvocatura, vennero attuate alcune iniziative che sembrava che potessero dare un qualche contributo alla soluzione del problema.
Venne nominata una Commissione Ministeriale, presieduta dal Prof. Romano Vaccarella, che elaborò una riforma generale del codice di procedura civile nel presupposto dell’abbandono dei suddetti principi dirigisti e di restituire il processo, per quanto possibile, all’iniziativa delle parti, senza che tuttavia si pervenisse concretamente alla riforma.
Venne attuato, in tale auspicata direzione e nell’ambito della riforma del diritto delle società, il D.L.17.1.2003 n. 5, contenente nuove norme di procedura nelle controversie relative a rapporti societari e similari, che portò alcune significative novità ispirate al principio della privatizzazione del processo, secondo le prime indicazioni della Commissione Vaccarella. Tuttavia tali norme furono infarcite da innumerevoli decadenze e preclusioni e ne fu limitata la valenza con previsioni eccessivamente dettagliate e farraginose tanto che il risultato fu talmente negativo che le stesse furono successivamente abrogate con l'art. 54, co. 5°, della L. n. 69/2009 di cui appresso si dirà.
Successivamente vennero emanate altre norme di riforma del codice di rito di cui in estrema sintesi si debbono ricordare:
il d.lgs 9.1.2006 n. 5 contente una riforma organica delle procedure concorsuali che ha provocato una notevole riduzione delle ipotesi di fallimento con buona pace di creditori;
la Legge 18 giugno 2009 n. 69, concernente disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione e la competitività, che agli artt. 42 e segg. si occupò ancora una volta di una nuova mini riforma del C.P.C. che merita un più attento esame per rilevare che, escludendo alcuni aspetti pratici della stessa probabilmente utili, fa risaltare agli occhi la perdurante volontà di:
continuare ad affidare ai giudici onorari sempre maggiori competenze (v. il nuovo art. 7 C.P.C., ex art. 45 legge cit, che aumenta quella dei Giudici di Pace);

limitare ancora la facoltà di eccepire l’incompetenza del giudice adito (v. nuovo art. 38 C.P.C., ex art. 45 n. 2 legge cit.);

modificare la disciplina delle spese e quella della responsabilità aggravata a danno della parte che ha avuto l’ardire di rifiutare una conciliazione (v. nuovi artt. 91, 92 e 96 C.P.C., ex art. 45, nn. 10,11 e 12 legge cit.);

aumentare i poteri discrezionali del giudice che potrà basare la sentenza non solo sulle prove acquisite ma anche su fatti non specificatamente contestati e su nozioni di fatto che rientrino nella comune esperienza (v. nuovo art. 115 C.P.C., ex art. 45 n. 14 legge cit.);

limitare le fatiche dei giudici ed il controllo delle loro decisioni consentendo che nella motivazione delle sentenze debbano dar conto in maniera “concisa” della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, esonerandoli dalla esposizione in sentenza dello “svolgimento del processo” (v. nuovo artt. 132 e 118 disp. att. C.P.C., ex 45 n. 17);

introdurre, pur su accordo delle parti, la “testimonianza scritta” al di fuori del processo e senza alcuna garanzia di contraddittorio tra le parti nell’assunzione della stessa (v. nuovo art. 257-bis C.P.C. ex art. art. 46 n. 8 legge cit.);

ridurre ancora ed inutilmente parecchi termini processuali tra cui quelli sulla riassunzione, sulla sospensione, sulla estinzione, sulla decadenza dall’impugnazione, sulla sospensione su istanza di parte, sulla rimessione al primo giudice e sulla mancata comparizione delle parti (v. nuovi att. 50, 297, 300, 305, 307, 327, 296, 353, 392 e 181 C.P.C. ex art. 45 n. 6 e art. 46 nn. 12, 13, 14, 15, 17, 19 e 21 legge cit.);

introdurre dei “filtri di ammissibilità” dei ricorsi per cassazione che potrebbero rivelarsi arbitrari (v. nuovi art. 360-bis, 380-bis e 375, ex art. 47 legge cit);

introdurre un “processo sommario di cognizione” tutto da verificare data anche la sommarietà delle norme che, allo stato, lo disciplinano (v. nuovi artt. 702-bis, 703-ter e 702 -quater C.P.C., ex art. 51 legge cit.).

ridurre e semplificare i procedimenti civili con ampia delega al Governo di emanare le relative leggi delegate secondo alcuni principi e criteri direttivi che, a prima vista, appaiono alquanto vaghi (ex art. 54 legge cit.)

limitare il numero delle liti potenziando inutili e costosi filtri conciliativi ante causam da affidare a persone non sempre qualificate, con delega al governo, ex art. 60 legge cit., per l’emanazione di nuove norme in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali, poi definitivamente attuati con il D. L.vo 4 Marzo 2010 n. 28, fortunosamente dichiarato incostituzionale per eccesso di delega con sentenza del 24.10.2012 non ancora pubblicata. E’ veramente strabiliante che si sia tentato ancora di battere una strada che, nel passato, si è rivelata assolutamente inidonea ed irrealistica, affidando anche a terzi uno dei compiti istituzionalmente assolti da secoli esclusivamente alla classe forense.



Ed ancora le norme processuali previste con la Legge di Stabilità 2012, approvata con L. 12.11.2011 n. 183 prevedono

all'art. 26 delle “misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente avanti alla Corte di Cassazione ed alle corti d'appello” che si concretizzano nell'estinzione delle vecchie impugnazioni ove non si dichiari la persistenza dell'interesse alla trattazione delle medesime impugnazioni entro il termine perentorio di sei mesa dall'entrata in vigore della citata norma; questa disposizione, particolarmente odiosa, fortunosamente evidenziata dopo la sua promulgazione, venne abrogata con D.L. 22.12.2011 n. 212, convertito nella L. 17,2,2012 n. 10.

all'art. 27 delle modifiche al codice di rito per “l'accelerazione del contenzioso civile pendente in grado di appello” che consistono, a parte altre perle, soprattutto nell'imposizione di pesanti pene pecuniarie da €. 250,00 ad €. 10.000,00 a carico degli sprovveduti che si permettono di proporre delle istanze inammissibili o infondate ex art. 283 e 431 CPC, in tema di sospensione dell'esecuzione provvisoria delle sentenze impugnate;

all'art. 28 delle “modifiche in materia di spese di giustizia” che si limitano ad aumentare della metà il contributo unificato per i giudizi di impugnazione ed a raddoppiare lo stesso per i giudizi in cassazione.

Infine, l'ultima perla di quest'anno, allorquando con D.L.vo 22.6.2012 n. 83, convertito con L. 7.8.2012 n. 134, sono stati istituiti con gli artt. 348 bis e ter dei filtri di ammissibilità anche per le cause in appello che prevedono non solo l'inammissibilità dell'appello quando l'impugnazione “non ha ragionevoli possibilità di essere accolta”, ma anche dei limiti al ricorso per cassazione, previsto in tal caso avverso il provvedimento di primo grado, che può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai nn. 1), 2), 3) e 4) dell'art. 360 con esclusione del n. 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Ma vi è di più dato all'u.c. dell'art. 348 tris è previsto che tale ultima norma limitava si applichi anche ai ricorsi per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado.
A questo punto non sappiamo più cosa pensare, sembra proprio che il nostro legislatore, che appariva orientato ad approvare una riforma epocale in cui venivano abbandonati i preconcetti di un secolo, da tempo stia oramai non solo invertendo i suoi programmi tornando indietro al dirigismo di un tempo ma stia provvedendo a scoraggiare con ogni mezzo i cittadini dal chiedere giustizia ed anche ad angariarli con ogni tipo di vessazione per pervenire, infine, a delegare ai più forti, per non dire altro, il potere giurisdizionale, che è uno dei poteri fondamentali dello Stato.

Sui principi del rito civile

Per secoli il nostro processo civile è stato informato ad alcuni principi di carattere generale che fanno parte, indiscutibilmente, della nostra civiltà giuridica e che risultano - oggi - soppiantati dal principio dell'oralità, per altro inutilmente portato avanti e mai concretamente attuato per l'evidente impossibilità di realizzare un processo civile sui conseguenti cardini dell'immediatezza, della concentrazione e dell'immutabilità del giudice, immaginati, se non sognati, all'inizio del secolo, in un contesto socio-economico ben diverso dall'attuale.
Di tali principi è bene ricordare quelli che appaiono ultimamente più minacciati o scarsamente attuati:
      15.  la forma scritta;

      16.  l’iniziativa di parte o principio della domanda;

      17.  la disponibilità della prova o principio dispositivo;

      18.  la strumentalità delle forme.

Orbene, tali principi sono stati e, si teme, saranno ancora calpestati o semplicemente ignorati dal nostro legislatore con grave disdoro sia per la giustizia sostanziale sia per l'efficienza stessa della giurisdizione per cui appare necessario, oggi più che mai, battersi per il loro ripristino.

Sulla riforma auspicabile del processo civile di cognizione

Bisogna auspicare, come accennato, che il legislatore provveda ad effettuare una definitiva inversione di tendenza e che lo stesso, attuando la riforma generale del rito civile, torni all’antico, restaurando il rispetto dei principi suddetti e, soprattutto, ritornando alla forma scritta, abbandonando la inattuabile forma orale e rispettando l'iniziativa di parte e la strumentalità delle forme.
Dato che i risultati ultimi appaiono insufficienti e contraddittori, è indispensabile che le rappresentanze della magistratura e dell’avvocatura prendano ancora posizione netta in favore di un processo “liberale” affidato alla disponibilità delle parti, per quanto riguarda tutti gli atti preparatori, ed al giudice per tutti gli atti decisionali (Ci dovremmo chiedere perché il processo civile non debba essere semplice e snello come sono, in linea di massima, il processo amministrativo e quello tributario).
Ritengo che tutti noi, che lavoriamo nell’ambito della giustizia civile e che, consentitemi, la amiamo, dobbiamo chiedere insistentemente una riforma epocale del rito civile basata su questi due concetti fondamentali:
     19.  Lasciare alla libera iniziativa delle parti tutte le fasi del processo in cui non sia necessario l’intervento del giudice, dalla vocatio in jus alle richieste istruttorie, dalla produzione documentale allo scambio di tutte le difese;

      20.  Chiedere ed ottenere l’intervento del giudice, con l’iscrizione della causa a ruolo e/o con un’istanza di trattazione, a cura della parte più diligente, solo ed esclusivamente nelle fasi fondamentali del processo:

      21.  della decisione delle questioni preliminari e pregiudiziali, ove necessario;

      22.  dell’ammissione e dell’assunzione delle prove e delle C.T.U. ed, infine,

      23.  della decisione della causa.

Con ciò, indirettamente, si otterrebbe anche lo sfoltimento dei ruoli e la fine delle innumerevoli udienze impropriamente chiamate istruttorie e dell’intasamento delle cancellerie dove dovrebbero pendere soltanto le cause nelle fasi decisionali.
L'avvocatura ha affrontato più volte tali problematiche pronunciandosi decisamente perché il processo civile venga semplificato con l’unificazione dei riti e restituito all’iniziativa delle parti.
In particolare l’OUA, Organismo Unitario dell’Avvocatura, della cui Assemblea Nazionale mi onoro di aver fatto parte dal 1996 al 2000, si è fatto da sempre promotore di varie iniziative tendenti a razionalizzare e snellire il sistema processuale civile.
Dobbiamo auspicare che lo Stato, per garantire ai cittadini una convivenza civile, ordinata e rispettosa dei diritti di ognuno, debba realizzare al più presto l'abrogazione di tutti i filtri vessatori e punitivi ultimamente attuati e realizzare l'auspicata riforma, secondo i principi sopra esposti, semplificando il rito al massimo con la eliminazione di tutte le forme inutili, di tutte le decadenze e le preclusioni non necessarie e di tutte le udienze dilatorie per pervenire, infine, all’attuazione di una giustizia sostanziale.
Mi piace ricordare, infine, che già ai tempi della Repubblica di Roma, nel IV sec. a.C., furono abolite nel processo le “formule sacramentali” e noi oggi, invece, dopo oltre duemila anni, continuiamo a discutere più di forme, di preclusioni e di decadenze e, più recentemente di filtri, e meno di giustizia sostanziale.  

Postato 13th May da Eugenio Amaradio
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